Musica e black culture: ‘Summer of Soul’ riporta in vita l’Harlem Cultural Festival del 1969. Ce ne parla Ahmir ‘Questlove’ Thompson.
Riportare in vita la storia non è una missione semplice, e lo sa bene Ahmir Questlove Thompson, che per la prima volta veste i panni da regista per l’acclamato Summer of Soul. Il documentario è arrivato in esclusiva venerdì 30 luglio su Star, all’interno di Disney+, fresco di due premi al Sundance Film Festival.
La storia ci riporta fedelmente all’anno 1969. Ad Harlem, 160 km a sud di Woodstock, per sei settimane in estate andò in scena l’Harlem Cultural Festival. L’obiettivo dell’evento era la celebrazione della musica e della cultura afroamericane, per promuovere la politica del black pride. Un evento storico e unico – ripreso casualmente dalle telecamere di Mount Morris Park (ora conosciuto come Marcus Garvey Park) – a cui parteciparono artisti del calibro di B.B. King, Sly and the Family Stone, the 5th Dimension, Stevie Wonder e Nina Simone. La testimonianza impressa su nastro dell’Harlem Cultural Festival è tuttavia finita nel dimenticatoio per decadi, prima di essere riportata alla luce dal produttore Robert Fyvolent.
«Ho visto casualmente per la prima volta il filmato nel 1997. – racconta Ahmir Questlove Thompson – Ero a Tokyo per un tour dei the Roots. Il mio traduttore sapeva che ero un fan del soul e mi portò in un locale che si chiamava Soul Train Cafe. Senza saperlo, lì ho visto due minuti della performance degli Sly and the family Stone. Non sapevo cosa stessi vedendo, perché era un’inquadratura molto stretta. Pensavo che tutti i festival degli anni ‘60 fossero europei, perché in America ancora non c’era quella cultura. Solo venti anni dopo ho scoperto la verità, quando David Dinerstein e Robert Fyvolent (produttori del documentario, ndr) mi hanno detto che in realtà era un filmato dell’Harlem Cultural Festival. Mi dissero che lo avevano loro e volevano che dirigessi il film. Era il 2017, ma ancora non potevo credere che fosse reale».
Musica gospel e libertà: «All’epoca era una terapia»
Come sottolinea giustamente Ahmir, quel Festival era un’anomalia negli Stati Uniti dell’epoca. E anche per questo motivo, ha un’importanza non solo musicale ma storica e culturale. Soprattutto per l’affermazione della black culture e del black pride. Ma più di ogni altra cosa è un sublime compendio musicale, che mette insieme radici e diramazioni delle sonorità fortemente black.
«Nel documentario c’è un equilibrio perfetto di musica soul, free jazz, salsa. – dice il regista – L’unico genere che ho veramente lasciato fuori è la comedy, perché ci sarebbero voluti venti minuti solo per dare un senso allo humor e spiegare come mai funzionasse per il pubblico. Per me gospel e free jazz sono la stessa cosa. E il pubblico è fondamentale anche solo come test. Ad esempio, quando suono, in alcuni casi promuovo la mia musica e in altri faccio esperimenti. Quando faccio il DJ cerco sempre di vedere la reazione delle persone. Ciò che noto quando suono musica soul intensa per i ragazzi è che si aspettano sempre la carica di James Brown. Per loro il sopra le righe è divertente. Il fuori contesto può essere divertente per gli altri, ma è invece un’espressione primordiale dell’artista. Vorrei che le persone capissero che quegli sfoghi rappresentavano una liberazione dalla paura. Voglio che la gente sappia che non sono artisti di colore che si sfogano, ma è terapeutico. La musica gospel era un canale. Ora per gli stessi obiettivi usiamo i life coach e la terapia».
L’esperienza da DJ per la creazione della storyline
Del resto, nel parlare di come ha tracciato le tappe della storia del Festival, Ahmir ricorda i suoi insegnanti e lo schema tipico di un racconto (dall’inizio alla fine passando per il climax), non tralasciando tuttavia la sua esperienza da DJ.
«Forse è colpa anche della pandemia – riflette – perché abbiamo iniziato a lavorare nella prima metà del 2020. È stato strano. C’è stato un momento in cui mi sono chiesto se il mio lavoro da DJ potesse aiutarmi a creare una storyline per il film. Alla fine è stato così. Per cinque mesi sono stato intrappolato in un loop, vedevo il filmato ovunque mi trovassi e segnavo i momenti che mi procuravano la pelle d’oca. Ne ho selezionati trenta. Così avevamo una base».
E poi è stato fondamentale scegliere la chiusura del documentario.
«Quando lavoro a un progetto penso sempre a quali possano essere gli ultimi due minuti. La parte che faccia a dire alla gente che è stato incredibile. L’ultima scena è un’ottima presentazione. Funziona come l’aggeggio in Men in Black. Ho fatto show pessimi con i the Roots, in cui le ultime canzoni hanno fatto dimenticare al pubblico anche le belle parti centrali dei concerti. È successo spesso, quindi ora è un mio trucco. Volevo entrare in questo film senza che mi si vedesse. Ed è stato l’assolo di batteria di Stevie Wonder ad avermelo concesso. Credo che nessuno abbia mai conosciuto questo lato di Stevie Wonder. Quella è la mia traccia, da lì si capisce che sono il regista del film».
Summer of Soul, l’incredibile miracolo della conservazione dei nastri
Un lavoro immenso soprattutto per l’editing e la scelta della linea narrativa. Ma sui mezzi tecnici, Ahmir non può che complimentarsi con Marcus Garvey Park.
«Nel 1969 usò probabilmente una 6mm. – racconta – Fu rivoluzionario riprenderlo per la tv, ma la qualità era tipo quella di una soap opera degli anni ’80. Eppure per l’epoca era surreale. Erano nastri pesantissimi. Solo spostarli è stato come un allenamento. E ovviamente non è stato facile elaborarli. Ci sono voluti cinque mesi per cancellare le distorsioni. Ma a parte qualche modifica, erano tutti perfetti. Un miracolo».
Ad Ahmir, su quell’incredibile produzione, restano due domande «da un milione di dollari».
«Non sono riuscito a mettermi in contatto con Tony Lawrence, non so neanche se è vivo o morto. Non so nulla. Questa è la prima domanda. La seconda è sull’audio è così. Non voglio screditare il team audio, ma abbiamo dovuto fare al massimo un 2% di aggiustamenti. Ciò che sentite è il mix praticamente originale, ed è perfetto. Non capisco come dodici microfoni possano essere così potenti. Per Stevie Wonder, sei microfoni erano sui due set di batterie e gli altri erano per la voce e per l’orchestra. Mi sto ancora chiedendo come faccia a sentirsi così bene. Ho chiamato il manager dei the Roots per dirgli se possiamo usare anche noi dodici microfoni. Quanti ne usiamo ora?, gli ho chiesto. Ha risposto 103. Sto cercando di capire se i the Roots possano sopravvivere con dieci microfoni».
Musica, cultura, arte: quanto è viva oggi la discussione sul black pride
«Questo progetto più di ogni altra cosa mi ha aiutato a crescere come essere umano. – riflette Ahmir Questlove Thompson – A volte gli artisti possono essere nevrotici, chiusi in loro stessi. Ed è strano perché, anche se dico sempre che la creatività possa essere trasferita, non esito ad ammettere che di tutte le cose creative che ho fatto per questo documentario ero nervoso. O meglio impaurito. Sono un perfezionista, e questo film mi ha regalato una sicurezza e consapevolezza che non sapevo di avere. Molto spesso la mia creatività si nasconde dietro la batteria, dietro Jimmy (Fallon, ndr), dietro uno scudo. Con l’eccezione dell’insegnamento, non ho mai sperimentato qualcosa di diretto. C’è Instagram o un libro, c’è una barriera e pensavo mi piacesse. Ma la sicurezza che ho acquisito ha cambiato la mia vita. Anche se non dico che non avrò più paura di vivere. Tecnicamente ho invece imparato il potere dell’editing. A differenza di tanti album dei the Roots, ho imparato che meno è meglio. Less is more».
La consapevolezza nasce soprattutto dalla riscoperta di un evento dimenticato. Ma è possibile dimenticare così brutalmente il passato?
«Oggi ascolto conversazioni che non ho mai sentito prima, soprattutto dopo la pandemia. – ci dice Ahmir – Si parla dei problemi mentali della comunità afroamericana. Parliamo dei problemi reali della gente di colore. Anni fa parlavamo di appropriazione culturale, che è un tema politicamente corretto. Negli anni ’80 era slang e non si capiva la sincerità del problema. So che questa non è l’unica storia lì fuori che deve ancora essere scoperta. Mi hanno scritto in tantissimi e ora so che quello non è l’unico filmato mai pubblicato. Forse questo film potrà essere un modo per cambiare la prospettiva e far uscire nuove storie. Per capire che anche cose non di qualità, che magari appaiono sui social media, sono importanti per la storia. Ora si parla di una cosa per tre mesi e ce ne dimentichiamo. Non volevo essere un regista, ma ora sono ossessionato dal pensiero di mostrare a tutti storie vere. Così non ci dimentichiamo di questi artisti».
Summer of Soul e il concetto di coolness
Ora, del resto, i Festival in America sono cool. «Ma dal 1993 al 1997 con i the Roots abbiamo vissuto in UK – spiega Ahmir – perché in Europa ci sono più di 700 festival».
«Eravamo una band e all’epoca negli USA eravamo rari. Eravamo una delle sette band con un contratto discografico, ora i contratti premiano sia la band che i gruppi. Sapevamo che la cultura dei festival era reale in Europa. Tornati in USA ci siamo ripromessi di mostrare cosa avessimo imparato e sono nati i Roots Picnic. Ora i festival sono reali, soprattutto negli ultimi cinque anni. Credo che l’America si stia aggiornando sulla cultura dei Festival».
Certo, il core di Summer of Soul resta la celebrazione della cultura afroamericana. «Se pensi agli anni ’70 vengono in mente i bianchi e gli hippie, ma volevo approfondire la cultura della gente di colore» dice Ahmir. E così, il neo-regista ha realizzato che «cool è ciò che non dici, piuttosto che ciò che esponi».
«La radio erano emancipata, non è come ora. Era cool essere contro il sistema. Sto cercando di impararlo anche io» conclude Ahmir.