Stefano Canto trasforma il cemento in un materiale capace di narrare storie, tra memoria, vuoti e stratificazioni.
Stefano Canto, artista di rilievo nel panorama contemporaneo, esplora con profondità il rapporto tra architettura e natura. La sua formazione in architettura e paesaggismo influenza le sue opere, che interrogano i confini tra luogo antropico e naturale. Canto ridefinisce l’architettura privandola della sua funzione originaria, trasformandola in altro.
«Che cosa diventa un’architettura senza la propria funzione? Un non finito? Che cos’è un edificio abbandonato? Che cos’è per noi? – si chiede Stefano Canto – Dal momento che non lo possiamo abitare, non ne possiamo fruire. E allora probabilmente quell’oggetto architettonico si sposta in un altro ambito che non è più quello dell’architettura. Diventa altro. E in questo rapporto, in questo punto interrogativo, si forma un po’ tutta la mia ricerca».
Architettura e Natura: il dialogo invisibile di Stefano Canto
Al centro dei suoi lavori un materiale spesso considerato di poco valore rispetto al marmo o alla pietra: il cemento. Stefano Canto lo sceglie non solo perché è il simbolo del XX secolo, ma per rendere omaggio al brutalismo e a maestri come Tadao Ando e Carlo Scarpa.
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«È il materiale con cui costruiamo principalmente gli edifici dove abitiamo. – ci racconta – Volevo restituirgli nobiltà, mettendo in evidenza molti aspetti e molte qualità che gli appartengono. Il suo stato di essere polvere, il suo stato di essere liquido. La capacità del cemento di inglobare di ricoprire, di assumere forme diverse e di intrappolare forme e di essere anche impronta di queste».
Il cemento assume nelle sue opere un ruolo artistico. L’artista lo utilizza per valorizzarne aspetti intrinseci: dalla sua capacità di inglobare forme alla memoria che trattiene. Un esempio emblematico sono le sculture nate da sfere di ghiaccio, che sciogliendosi creano vuoti nel cemento, lasciando un’impronta effimera e organica.
In un’altra serie di lavori, Stefano Canto parte dalle cavità degli alberi vuoti che vengono creati da funghi patogeni che in natura aggrediscono l’albero dal suo interno scavandone il midollo. Il vuoto che si è creato diventa il punto di partenza della scultura: riempiendo quella cavità con il cemento, Canto restituisce la forma mancante rendendola visibile.
«L’albero stesso diventa una sorta di cassaforma per il cemento, che ingloba anche tracce materiali del passato dell’albero, come frammenti di corteccia o parti bruciate. – spiega – Questi segni raccontano la memoria e le trasformazioni subite dall’albero nel tempo, che vengono così preservate e rese tangibili attraverso il mio lavoro»,
Vuoti, memoria e archeologia
Serie come Archeologia dell’effimero invece, riflettono sulla velocità e sulla mortalità dell’architettura contemporanea e il suo parallelo con la società attuale, focalizzata su un presente perpetuo. Stefano Canto invita lo spettatore a interrogarsi su assenze, vuoti e cicli effimeri, trasformando l’arte in un dispositivo di riflessione.
«Nella società contemporanea viviamo principalmente il presente. – dice – Il passato è qualcosa che sembra estremamente lontano e il futuro è qualcosa di irraggiungibile. In questo senso vivere il momento, vivere l’attuale, racchiude l’impossibilità di costruire poi la storia se non una storia che è soltanto strettamente legata al momento che stiamo vivendo. Quindi una storia fatta o non fatta di reperti archeologici perché non c’è più il tempo di costruire un reperto perché quello viene continuamente smantellato distrutto e ne viene costruito uno nuovo. La nostra società è una società che vive senza costruire. Una società senza passato, ma con un continuo e ripetitivo presente».
Foto preview di Lara Cetti