Il 24 aprile esce Scritto nelle stelle, il nuovo album di Ghemon, anticipato dai singoli Questioni di Principio, In un certo qual modo e Buona Stella. Un album che vuole essere un messaggio positivo, ma che rappresenta soprattutto un atto di consapevolezza – umana più che artistica – e che dà vita a un tappeto sonoro ricco di sfumature.
Inizierei dal principio, cosa vuol dire far uscire un album in tempo di quarantena? Ti sei chiesto che valore possa avere la musica in questo momento storico?
Mi sono detto diverse volte in questi giorni che la vita è stranissima. Due mesi fa avevo dei programmi e dei progetti completamente diversi, ma niente è stato come me lo ero immaginato. Ci siamo lo stesso, però, pur con tutte le difficoltà. Mi son voluto dare delle risposte e ho voluto darle anche a tutte le persone che credono in me. Anche a quelli che, e non sono pochi, mi avevano fatto capire sui social che avevano bisogno di questo disco. Questo disco è per loro. Anche perché è una fotografia di un momento bello della mia vita. Credo che, al di là delle discussioni di questi giorni, la musica sia una bellissima compagnia. Sarebbe difficile vivere senza. Bisogna quindi essere un pochino coraggiosi. Ovviamente sono state fatte delle valutazioni che vanno al di là degli ideali. Ma le persone che lavorano con me hanno sposato la mia visione di far uscire l’album ora, e non in un altro momento.
Tra l’altro, al di là del mondo dei live ovviamente fermi, ti sei ingegnato e hai tirato fuori delle idee geniali. Il video di Buona Stella è homemade e vede la partecipazione anche dei fan della prima ora e, poi, c’è in programma un instore digitale.
Sono due iniziative figlie della stessa esigenza. Quella di non stare fermi e non far vincere questo momento. Secondo me dare una risposta è importante ed è necessario. All’inizio, quello che sta accadendo ha colto tutti di sorpresa lasciandoci col quesito E ora che si fa?. Ma le limitazioni nella mia vita hanno sempre stimolato la creatività, quindi son venute fuori delle idee. Ovvio che io desideri essere apprezzato sempre più, ma so bene quali sono le persone che mi sono vicine tutti i giorni e lo sono sicuramente i fan più stretti. Quelli che hanno verso di te una fiducia tale da comprare i biglietti dei concerti mesi prima, o da acquistare il disco in prevendita senza sapere neanche cosa ci hai messo dentro. E magari hai fatto un album in cui fischietti. Queste due iniziative servivano in primo luogo a tenerci vicino e poi a essere riconoscente nei loro confronti. Sembra retorico ma giuro che non lo è: esisterebbe sicuramente la mia musica, ma Ghemon esiste anche e soprattutto perché c’è qualcuno che lo ascolta e che lo supporta.
Scritto nelle stelle è un album molto personale. Mi è sembrato una sorta di racconto, in cui la tracklist segue un percorso bel preciso. Buona Stella, in questo senso, rappresenta una storia felice. Per questo hai deciso di farla uscire ora?
Sì, era nel gruppo dei pezzi che volevamo far uscire in anticipo e mi è sembrato adatto a questo momento, perché c’era bisogno di una scossa. C’erano pezzi più introspettivi che in questo momento non avrebbero colpito nel segno come dovevano colpire. Buona Stella – è vero – è un pezzo allegro, ma dice anche che la vita non è semplice. Non è un’allegria fine a se stessa. È un voler ridere sul fatto che la vita sia veramente un casino.
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Nessuno dei tuoi pezzi è fine a se stesso. C’è sempre l’ombra di un viaggio introspettivo. Ad esempio, la prima e l’ultima traccia – Questioni di Principio e KO – sembrano due facce della stessa medaglia.
Sì, è così. Credo ancora tantissimo nel potere di un album che sia un’opera. Nell’epoca dei singoli, penso che il disco sia una conversazione con un inizio e una fine. Facendo una riflessione l’altro giorno, ho pensato all’album come a un menu degustazione tipico dei ristoranti stellati, durante il quale lo Chef ti fa fare un percorso nel gusto. Il cliente si fida di questo percorso. E così è anche compilare un album oggi, per me, facendo assaporare gusti e chiavi diverse che l’artista ha trovato. Il pezzo iniziale e quello finale sono, sì, due facce della stessa medaglia e sono entrambi dolceamari. L’ultimo pezzo non è messo per niente a caso, è figlio soprattutto dell’esperienza dei concerti. Nei live, soprattutto da quando suono con la band, ho capito sempre di più che preferivo un finale di crescita a un finale più calmo, da voce e pianoforte. Mi piace che le cose suonino più cariche alla fine. E quindi non è messa lì a caso KO, è vero.
È un album che a livello sonoro è un caleidoscopio di colori. C’è tanto di te e anche del tuo passato.
Ormai con Tommaso Colliva lavoriamo insieme da tanto, e nel frattempo è successo di tutto. Lui ha vinto un Grammy, ma siamo andati d’accordo subito. Già da ORCHIdee, cioè tre dischi fa. Lui ha capito il mio spirito e il desiderio di non voler essere imbottigliato in una cosa sola, nella scatoletta di un unico genere. Volevo cercare di essere vario, versatile, mettendo la mia firma su tante cose diverse. Forse questo è il disco in cui sono riuscito a concretizzare questo desiderio. Hai ragione quando dici che i tappeti sonori sono molto vari. Non è che volevo dimostrare di essere versatile, finalmente mi sentivo libero di esserlo. L’ho messo in pratica.
Altre due tracce che secondo me sono collegate sono Cosa resta di noi e Inguaribile e romantico. Mi sembrano proprio la conseguenza di chi arriva a una certa età e assume una certa consapevolezza sulle relazioni interpersonali.
Sì, sono due facce di medaglie diverse. Scritto nelle stelle è un disco positivo rispetto al precedente perché non c’è rabbia dentro. Cosa resta di noi è un pezzo malinconico sui rapporti, che possono essere d’amore o di amicizia, ma è comunque un pezzo d’accettazione. Dice che anche se siamo stati belli e uniti, c’era qualcosa non andava. Le cose sono andate così, senza rancore. Inguaribile e romantico è invece accettazione dei propri difetti e un dialogo con la persona che hai accanto. Vorresti essere il compagno perfetto, ma sai di non esserlo e, nello stesso tempo, di essere completato da chi condivide la vita insieme a te. Son considerazioni molto oneste. Volevo un disco che potessero apprezzare anche e soprattutto gli adulti.
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Allora parliamo di Champagne, un pezzo con una cazzimma – come dici tu – perfetta per i millennials.
Fa parte di un trittico, perché Champagne è idealmente sulla stessa linea di Inguaribile e romantico e, soprattutto, Cosa resta di noi. In sostanza, raccoglie le accuse verso una persona che pensi ti abbia fatto soffrire. Passi tanto tempo, se non tutta la vita, a chiederti perché non ti abbia visto per quello che sei. Champagne è però una riflessione e un’accettazione del fatto che, alla fine, per fortuna sia andata così. Perché in questo modo puoi andare avanti e scegliere qualcosa che è meglio per te. Direi che è quasi un ringraziamento che le cose siano andate così e un saluto alla sensazione di non esser voluti. La sensazione di rifiuto e di non essere abbastanza – anche se siamo sempre abbastanza, soprattutto per noi stessi – riguarda sia chi ha 13 anni che chi ne ha 60. Farsi apprezzare per quello che siamo da chi ci sta accanto è un dilemma che forse ci troviamo davanti tutti i giorni della nostra vita.
Quando hai finito l’album, che reputo molto catartico, come ti sei sentito?
In pace, soprattutto rispetto al disco. Penso sia una cosa bella, perché a volte dopo un disco ti senti svuotato. Invece mi sento di aver dato tutto quello che potevo dare creativamente. Questo mi lascia spazio per ripartire, nonostante i casini di questi giorni. Ho voglia di tornare a lavorare, e lo devo anche a questo disco.
Che effetto fa rilasciare un disco sapendo che sulla situazione dei live grava un punto interrogativo?
L’effetto è stranissimo. Quando mi è capitato di parlare con le persone con cui lavoro di questa eventualità, ci siamo rimasti male sulle prime. Ma la situazione è talmente inedita che forse, solo col passare del tempo, ci renderemo conto di quanto ci manca la musica dal vivo. Io mi ritengo comunque uno scarafaggio, non muoio mai e mi adatto a tutte le situazioni. Troverò altri modi per abbassare la velocità al minimo, così da potermi sostentare. La mia preoccupazione è per chi lavora ai miei concerti, i tecnici e le loro famiglie. Io posso andare in studio, loro non possono accendere le luci di nessun palco. La mia preoccupazione è quella di farmi valere per tutelare loro.