Un album uscito dopo una manciata di singoli e un’autobiografia: è questo il 2020 del rapper italo-francese Speranza, la cui storia è fatta di bassi (quelli da cui è partito) e di alti, alcuni già raggiunti altri ancora tutti da conquistare. Ed è una storia di resistenza, di coraggio, di passioni e anche di sopravvivenza.
Non a caso ‘L’ultimo a morire’ è il titolo che l’artista ha scelto per il suo doppio debutto, discografico con Sugar e letterario con Rizzoli. Un intreccio di parole la cui sostanza ha il peso della vita vissuta ma soprattutto della vita che Speranza ha scelto di vivere. Abbiamo chiesto al rapper di raccontarci meglio il suo percorso tra le frasi di un libro, le barre di una canzone e la tenacia di chi vuole uscire dall’emarginazione.
Il 17 novembre è uscito in libreria ‘L’ultimo a morire’. Da dove arriva l’esigenza di raccontarti tra le pagine di libro?
Sia l’album che il libro hanno lo stesso titolo. In entrambi i progetti parlo spesso del mio modo di essere, del mio ambiente e dei miei pensieri. È un approccio molto intimo che ho voluto approfondire nel libro, un’altra sfaccettatura di me.
Rispetto alle barre di una canzone, che libertà ti ha dato scrivere in prosa?
La libertà di approfondire la persona che sono e le esperienze che mi hanno formato. Quella di soffermarmi su qualsiasi cosa, per fornire dettagli, analizzare situazioni ed esprimere follie.
In questo libro conosciamo Ugo prima ancora del rapper Speranza: che tipo di lavoro è stato necessario per scavare in certi dolori del tuo passato?
Ho sempre scavato nei dolori, a tal punto che parecchie cose non mi fanno nemmeno più male. Scrivere le proprie sofferenze diventa una specie di vaccino contro la sofferenza stessa.
Qual è stato il momento più difficile da scrivere nero su bianco?
Quello di esporre pubblicamente certe cose totalmente personali. Essere sinceri non è semplice, ma lo si deve essere.
Hai conosciuto la vita di chi è ai margini della società e, come racconti, sei vissuto nella miseria e nella criminalità ma soprattutto, direi, sei sopravvissuto alla miseria e alla criminalità. L’arte può essere strumento di emancipazione? In che modo la musica ti ha salvato?
Viverci, sopravviverci e anche conviverci. Sono scenari presenti ovunque. Il male è dappertutto e bisogna esorcizzarlo. Qualsiasi disciplina può aiutarti. Nel mio caso, la musica mi è servita a sfogare la mia rabbia su un foglio e non per strada.
LEGGI ANCHE: UNICEF: Ultimo a Tor Bella Monaca incontra madri e figli in difficoltà
La volontà di (r)esistere domina il tuo percorso ma quali sentimenti lo hanno attraversato nel suo svolgersi? E oggi quale prevale?
La fede è l’aiuto più fondamentale e low-cost che possa esistere. Ho sempre fatto prevalere questo sentimento per mantenere in allenamento la mia forza interiore.
Rime in italiano e napoletano, francese e dialetto zingaro: la contaminazione, linguistica e culturale, fa parte del tua sensibilità nella musica e nella vita. Quanto ti ha forgiato come artista il confronto con mondi così diversi? E c’è qualcosa che li accomuna?
Bisogna conoscere qualsiasi tipo di mentalità per forgiarsi la propria a 360 gradi, con i suoi pro e contro, per avere un’identità di pensiero, senza paraocchi. Per il resto c’è la musica che accomuna tutto/i.
Non ho mai lottato per la sete di successo o di gloria. Dopo 20 anni avrei già abbandonato sennò. L’ho fatto sempre per dare voce alla mia gente, “tra di noi” per sentirci rappresentati. Di lavoro facevo tutt’altro, non potevo costruire sui sogni. Poi la musica ha scelto me e quel sogno per adesso è diventato una realtà.
Il libro arriva esattamente a un mese di distanza dal tuo album di debutto che porta lo stesso titolo: qual è il tuo personale bilancio finora?
Avere dei riscontri positivi, gente che ti supporta e arrivare a dei traguardi che alzano sempre di più l’asticella sono il bilancio più meritevole che io possa desiderare.
Il settore della musica e dello spettacolo chiude dodici mesi da dimenticare, in cui oltre al lavoro è spesso mancata la giusta attenzione da parte delle istituzioni. Cosa pensi in generale della situazione e delle iniziative nate anche tra gli artisti per sostenere i lavoratori?
Ci sono famiglie molto più disastrate rispetto a qualsiasi situazione. Di gente che soffre veramente la fame o massacrata di debiti. Se loro ce l’hanno fatta, ci dimostrano che torneremo più forti di prima.
Da un lockdown all’altro, ci ritroviamo alla fine dell’anno: ascoltare e fare musica, in questi mesi, che valore ha avuto per te?
La musica è stata l’unica via di fuga durante la quarantena. Ho cercato di trasformare la tragedia in opportunità per scrivere tante altre cose.
Augurandoci il meglio, per il 2021 pensi di portare il tuo album anche nella dimensione live? Che cosa ti sta più mancando dell’esperienza dal vivo?
Non vedo l’ora di fare l’album in live. Almeno la gente avrà avuto anche il tempo di impararselo a memoria per cantarcelo insieme quando sarà. Non hanno scuse (ride, ndr). Questo mi manca, l’unione e lo “stare insieme”.
Foto di Daniele Cambria da Ufficio Stampa Rizzoli Libri