Marin Nikolla ci racconta l’installazione ‘DYING OF LAUGHTER’ al Fuorisalone 2025, tra ceramica e fughe dal linguaggio.
In occasione del Fuorisalone 2025, allo Slow Mill di Milano è possibile ammirare l’installazione DYING OF LAUGHTER, ossia morire dal ridere, dei giovani architetti albanesi Marin Nikolla e Denis Muça. Un’opera che fonde la tradizione della ceramica alla contemporaneità della comunicazione odierna, come ci spiega Marin Nikolla in questa intervista.
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Quando e come è nata l’idea di DYING OF LAUGHTER?
«L’idea è nata durante la quarantena, ma penso sia stata influenzata da eventi precedenti, in particolare dal terremoto che ha colpito l’Albania nel 2019 proprio nei giorni della festa dell’indipendenza. Il 28 novembre e tutto il mese successivo, fino alla quarantena, lo abbiamo passato praticamente per strada. Non per festeggiare, stavolta, ma spaventati dalle scosse di assestamento dopo un terremoto che aveva provocato una catastrofe. Poi dalla strada ci è stato ordinato di chiuderci in casa, il più isolati possibile. Una volta, l’ambiente più pericoloso era l’appartamento, ora invece era diventato il più sicuro… ci siamo ritrovati stretti tra un virus e un terremoto».

Iniziamo dal concetto di DYING OF LAUGHTER: cosa vi ha ispirato in questa citazione?
«Il paradosso! È paradossale e allo stesso tempo molto usata. Rende la morte ridicola, ma rende anche la risata estremamente seria, per un istante. In una situazione in cui la vita è minacciata, ridere è quasi schizofrenico… tranne per chi sta morendo: lui può ridere liberamente. Dato che è un’espressione gergale che descrive un momento di gioia estrema, possiamo immaginare che qualcuno, da qualche parte, non solo abbia riso di fronte alla morte, ma che ci sia davvero morto dal ridere. Quasi come una sovrapposizione quantistica».
L’installazione prevede vasi di Vasil Kuka, un vero maestro: potete dirmi qualcosa su di lui e su come avete lavorato insieme?
«Posso dire con certezza che Vasil è autentico, oggi la maestria è un concetto relativo. Ma Vasil, con la moglie e la sua famiglia, ha creato uno studio che raccoglie anche la terra da una collina vicina (un piccolo segreto), la lavora e la lascia decantare in vasche per poi ottenere e conservare una montagna di argilla. Dopo una fase di stagionatura, lui da solo realizza circa 300 pezzi al tornio. La cottura è affidata al fratello Altin, mentre la pittura alla moglie Jana. È interessante sottolineare un’evoluzione più artigianale e pratica che artistico-concettuale dello studio, il che in realtà li ha resi anche più forti a livello locale. Fanno ceramiche accessibili, a prezzi cinesi, come dice lui».
Perché avete scelto di usare la ceramica in questa installazione?
«La lavorazione dell’argilla l’ho vista per la prima volta in un film con Demi Moore, un’idealizzazione hollywoodiana del fango. Ma quando ho conosciuto Vasil, non c’entrava nulla con quel film — era tutto un altro mondo (ride, ndr). Talmente diverso che, dopo la quarantena, quando andai a ordinare il vaso che oggi stiamo presentando (era il 2020), gli dissi semplicemente di scriverci sopra hahahah più volte. Mi prese un po’ per matto (forse per via della quarantena) e inizialmente non lo fece. Oltre a questo, è un metodo sostenibile, viene prodotto localmente e segue un principio molto simile alla stampa 3D. Dà l’idea che, quando fu scoperta, la ceramica sia stata una sorta di Eureka dell’umanità. Forse con un impatto simile a quello delle recenti scoperte tecnologiche».

Sui social morire di risate è reso anche come ahahahah (più o meno), qualcosa che vediamo spesso al giorno d’oggi: volevate riflettere anche su questo aspetto nella vostra installazione?
«Ahahaha ahahahah ahah hah haha hahaha… la nostra creazione è ispirata proprio da una scoria comunicativa, come usiamo spesso ahaha. Sui social è emerso come fenomeno: una risata espressa come parola, ma che in realtà non è proprio una parola. È più una fuga dal linguaggio, una risata scritta. Una parte non ben pensata della tecnologia».
Cosa significa per voi essere a Milano a rappresentare l’Albania per il Fuorisalone?
«Non lo sappiamo bene. Forse dopo la presentazione potremo rispondere meglio a questa domanda. Adesso ci sono due Albanie: quella geografica, che è rimasta, e un’altra più grande, sparsa per il mondo, che cerca qualcosa. Non so… forse ce ne sono anche altre».