Può la cultura essere veicolata dal game design: Claudia Molinari e Matteo Pozzi ci raccontano la realtà di We Are Müesli.

Il game design al servizio della cultura: We Are Müesli è ormai una realtà consolidata nello sviluppo di giochi – su diversi formati e in vari contesti – che non siano semplicemente fini a se stessi, ma che possano offrire uno spunto di riflessione. «Lo stimolo c’è sempre. – ci dice Matteo Pozzi – È una situazione schizofrenica, nel senso che a volte capita che con le istituzioni culturali arrivi già in partenza l’interesse verso il mondo del gioco. Non abbiamo inventato nulla. Ci sono filoni, correnti, movimenti in tutto il mondo. Però dipende tutto dagli interlocutori. A volte occorre dover partire dalle basi e far capire cosa sia il gioco e cosa non sia. Altre volte ci sono porte aperte e interessi che arrivano in modo naturale. A volte ti senti un avanguardista incompreso, altre volte fai un normale lavoro creativo come tanti. In questo senso, sono montagne russe».
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Negli anni, di fatto, We Are Müesli si è confrontato con tantissimi interlocutori. Da Ludmilla (escape room realizzata per Festivaletteratura e ispirata a Italo Calvino) a Madeleines (libro-gioco letterario), passando per Missione Pietrarubia per la Fondazione Arnaldo Pomodoro e Ghost ‘n Found per il Borgo di Staffarda (Cuneo). E poi i videogame e i giochi in scatola: declinazioni infinite di un’anima ben definita. Con le gioie e i dolori del caso.

«La svalutazione del mezzo videoludico non è solo culturale, ma anche economica nel culturale. – dice Claudia Molinari – Un’istituzione culturale trova normalissimo che una mostra abbia costi di un certo tipo, ma non si pensa che il videogioco possa costare così tanto ed essere così oneroso. Da una parte, il videogioco sta creando interesse, dall’altra è da salotto snob. Devi far capire perché è importante. Non è solo un lavoro creativo, ma anche psicologico e strategico». Non è comunque nell’interesse di We Are Müesli essere «portavoce di un medium»: «È stancante. – precisa Matteo – Facciamo semplicemente ciò che ci piace». «Qualche passo avanti c’è stato da parte della cultura, ma è ancora molto piccolo. – aggiunge Claudia – Vorremmo far sì che i giovani che si vogliono imbattere in questo tipo di battaglia abbiano il loro spazio».
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Il game design al servizio della cultura
Nel mentre, We Are Müesli prosegue il suo percorso di ricerca nel game design. «Il game design è mettere al servizio della cultura una disciplina. – commenta Claudia Molinari – Diciamo spesso che è giusto valorizzare il patrimonio culturale con un gioco, ma bisogna capire il formato giusto per quel patrimonio. Non è detto che la VR sia la scelta giusta per un museo, magari più adatto a un format pervasivo. I giochi sono comunque strumenti per veicolare la cultura». In questo, anche il tema dell’inclusione ha il suo enorme peso. «Fare un gioco accessibile a tutti è come trovare la pietra filosofale. – aggiunge la Molinari – Sono tematiche difficili, ma questo non vuol dire che, in fase di progettazione, non si possano fare ragionamenti che alleggeriscono il carico e distribuiscano l’accesso».
Dunque, «usare colori leggibili, font che aiutano, provare a non utilizzare il maschile sovraesteso, sono piccole cose che possono aiutare un tipo di popolazione. Sono piccole cose che rendono più fruibili i nostri giochi. Iniziare a non progettare solo di pancia, ma ponendosi piccole domande è il minimo che possiamo fare». Sulla questione di genere invece – su cui lo studio si è da sempre speso tantissimo – «le donne giocano meno per questioni sociologiche», dice Claudia. «Tuttavia – continua – non è solo un problema dei gamer, ma di potere economico. Se si investisse di più su progetti culturali con un respiro diverso, si inizierebbe ad avere un pubblico più diversificato, anche in termini di senior. Il problema è a monte, non a valle».

E nel futuro? Claudia Molinari e Matteo Pozzi ci confermano che vorrebbero lavorare a una nuova escape room. «Tra i vari linguaggi del gioco, è molto ricco e completo. Un po’ analogico, un po’ digitale», conferma Matteo. «Progettare una escape room è rassicurante. – aggiunge Claudia – I videogiochi invece sono frustranti e sottovalutiamo alcune implicazioni psicologiche. Il videogioco, al contrario di altri mezzi, è l’unico che cambia tecnologia ogni due per tre. Non è un lavoro sereno». Eppure, tra le prossime uscite dello studio, è previsto proprio un videogioco. «Si chiama In their shoes ed è ambientato a Milano oggi. – precisa Matteo – L’idea è quella di raccontare in controtendenza, rispetto al massimalismo eroico di tanti videogiochi mainstream, la vita di sette personaggi in una metropoli di oggi nel 2025. È un videogioco neorealista. Uscirà a inizio 2026».