Massimiliano Stefanelli, direttore d’orchestra e compositore, l’abbiamo incontrato in questa settimana prima di Sanremo, L’obiettivo non è quello di discutere del festival ligure ma di aprire uno spot sul ruolo del direttore d’orchestra, questo protagonista che, armato di bacchetta, sembra poter ordinare e coordinare umori e sentimenti ad un ensamble di decine di persone e del pubblico, leggendo semplicemente un semplice pezzo di carta, uno spartito. Mossi da curiosità e dal grande successo del format di Ezio Bosso su Rai abbiamo cercato delle risposte confrontandoci direttamente con un direttore dei grandi teatri: Massimiliano Stefanelli. Nato e cresciuto a Roma Massimiliano è protagonista di una intensa attività concertistica che lo ha portato da New York a Mosca, passando per tutta l’Europa e non solo. Una carriera che parte dal 1986 con un curriculum ricchissimo di esperienze. Il nostro ospite ha “guidato” moltissime orchestre: la CBSO (City of Birmingham Symphony Orchestra), l’Orchestra Sinfonica della RAI di Roma, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, la Montreal Symphony, la Filarmonica di Bonn, la Israel Symphony Orchestra, la English Chamber Orchestra, la Spoleto Festival Orchestra, la Charleston Symphony, la Toronto Symphony, l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona l’Orchestra Sinfonica della Fondazione “Arturo Toscanini”.
Cosa significa oggi essere un direttore d’orchestra?
Principalmente significa riuscire a costruire una coscienza collettiva con i musicisti con cui lavori. Qualsiasi partitura, anche la più dettagliata, è soltanto un percorso molto vago del possibile. Il ruolo del direttore d’orchestra è quello di costruire un’immagine sonora della partitura, un percorso interpretativo attraverso tutte le scelte possibili, dopodiché coinvolgere le volontà dei singoli musicisti fino alla condivisione di quell’idea come unica possibilità interpretativa. Un’esecuzione musicale non è mai passibile di essere ripetuta uguale a se stessa all’infinito. Si materializza in un tempo preciso, avviene “qui e ora”: un attimo prima non c’è, un attimo dopo non c’è più. E in questo specialissimo momento quello che mettiamo in comune è proprio la nostra fisicità, in realtà, la nostra presenza fisica, sia come persone, sia come strumenti. Io come direttore, la mia bacchetta, il suono che produciamo, la percezione del pubblico che anche ci guida in una direzione piuttosto che in un’altra. E questo è possibile solo conquistando la fiducia dei tuoi musicisti convincendoli che la tua idea è l’unica scelta possibile, riuscendo così, appunto, a costruire una coscienza collettiva.
Coordinare in gruppo di persone, dirigere un’orchestra, c’è un aspetto metafisico che va oltre all’esecuzione?
Non credo, non sempre. Penso piuttosto che sia molto fisico, quasi animalesco! Più che metafisico direi quasi istintivo in alcuni momenti inconscio. Si può trovare qualcosa di metafisico in un singolo in cui come per magia tutto è perfettamente giusto. E poi si passa la vita a tentare di ricercare quel momento senza riottenerlo quasi mai.
Come riavvicinare o avvicinare i giovani alla musica classica?
Io ribalterei il problema. Ciò che per me è veramente insensato è la divisione della musica in categorie, sotto categoria. Penso che queste divisioni debbano lasciare il passo ad un’unica divisione, molto molto più grande: la musica o riesce a dire qualcosa o no. Se proprio vogliamo riferirci alla musica classica quella fatta con l’orchestra, con i signori vestiti di nero, con i violini, le viole, i contrabbassi, i violoncelli, senza chitarre elettriche, senza bassi elettrici, senza strumenti atipici, ecco se vogliamo avvicinare i giovani a quella, dobbiamo fare in modo che per quelli organici ci sia produzione nuova, nuove composizioni, una nuova letteratura.
Non credo che all’epoca di Mozart, di Salieri, ma prima di Bach, o all’epoca di Beethoven le opere venissero riproposte all’infinito, sempre le stesse. Ogni composizione ne ammetteva una nuova immediatamente successiva e l’interesse del pubblico non era nel riascoltare per l’ennesima volta la stessa esecuzione alla ricerca del dettaglio come in gioco enigmistico. Era piuttosto arricchire il proprio punto di vista stilistico, culturale ed eventualmente interpretativo attraverso la proposta che ogni nuova composizione rappresentava. In Italia noi abbiamo la fortuna di aver dato i natali ai più grandi compositori d’opera: Puccini Verdi Rossini su tutti. E a parte i festival in cui si cerca disperatamente di riproporre tutte le opere di questo o quel compositore, tutti gli anni nei cartelloni si ripropongono gli stessi titoli. E’ veramente difficile uscire dalla lista dei trenta, trentacinque forse quaranta titoli che arricchiscono i cartelloni dei teatri italiani alla ricerca disperata di un pubblico pagante da accarezzare sempre con dolcezza e mai contro pelo.
Ezio Bosso è protagonista di un nuovo rinascimento comunicativo che pone al centro la storia e le musica classica con Che Storia E’ La Musica. Cosa puoi suggerirgli?
Ma niente, lui è un genio. E’ difficile dare un consiglio a Bosso: qualsiasi consiglio io possa dargli, lui ci avrà sicuramente già pensato. Lo considero un musicista estremamente raffinato, preparato e una persona, un artista, che mi piace molto perché affronta la sua arte e credo tutta la sua vita come io mi sforzo di affrontare la mia: chiedendosi sempre perché. Il perchè di tutto, nella musica di qualsiasi scelta musicale, qualsiasi gesto, qualsiasi dettaglio della partitura, ogni cosa ha un perché. Io cerco sempre di immaginare sempre il compositore alle prese con infinite scelte e alla fine ne fa una. Prende la sua matita, la sua penna o il suo computer e fissa una e una sola scelta. Scoprire il perché di quella scelta, o immaginarne uno plausibile, è l’obiettivo del mio lavoro.