Il rapimento di Silvia Romano, la volontaria italiana rapita in Kenya, spinge in molti a chiedersi come mai una 23-enne decida di mollare tutto e di partire per l’Africa per dedicarsi a un progetto di volontariato sapendo di correre dei rischi così grandi. Una domanda sicuramente legittima che però da spazio ad una serie di interpretazioni spesso scorrette e superficiali, tra chi liquida l’argomento con un abietto “se l’è andata a cercare” e chi con un non meno approssimativo “è andata a ritrovare se stessa”.
Le motivazioni che portano una ragazza come Silvia a partire per l’Africa possono essere molto varie e ovviamente non possiamo essere a conoscenza di quelle che hanno fatto scattare in lei la voglia di salire su quell’aereo per Nairobi, semplicemente perché della giovane conosciamo soltanto il profilo che ci hanno raccontato i media in questi giorni tristi del suo rapimento.
Quello che è certo è che Silvia – e le migliaia di volontari che ogni anno si recano in Africa per fare del bene – ha raggiunto il Kenya ben sapendo di non andare a fare una gita spensierata da vivere in allegria come in un villaggio vacanze. Sapeva anche di dover affrontare un periodo nel quale le sarebbero mancati beni e servizi che da questa parte del Mediterraneo consideriamo piuttosto scontati. E non parliamo di cose assolutamente superflue come una tv o una PlayStation, ma di acqua calda, letti comodi, bagni puliti…
La nostra idea di Africa è sbagliata e stereotipata
A tutto questo si aggiungono una serie di “dissuasori alla partenza” della più varia natura. Si affollano domande che mettono in dubbio la scelta. C’è chi suggerisce di fare la volontaria in un luogo più “sicuro”, che non sia afflitto da guerre, terrorismo, malattie e rischi di rapimento. Una visione piuttosto provinciale e stereotipata della strutturata varietà dell’Africa.
Un continente al quale pensiamo sempre con in mente soltanto capanne di fango e la colonna sonora del Re Leone sullo sfondo di un sole enorme che tramonta nel cielo rossastro. Questo perché molto spesso, in Italia, si ha la concezione che l’Africa sia un unico grande Paese con una sola cultura, una sola etnia, una sola lingua. Nient’altro che guerre, diffusa povertà, epidemie e una situazione politica altamente instabile.
Situazioni che esistono – per carità – ma non ovunque. L’Africa è qualcosa di vario e gigantesco. E sì, è vero, in alcune zone il rischio di rapimento è altissimo. Ma è anche vero che esistono luoghi altamente sicuri, così come altri che non lo sono per nulla.
La contea keniota di Kilifi – il luogo per dove è partita Silvia – non è un luogo ad alto rischio, non è teatro di alcuna guerra e gli episodi di rapimento non sono poi così frequenti come si potrebbe pensare. È un luogo, però, dove i bambini (specie quelli che vivono fuori dalle città) hanno bisogno di scuole, di strutture, di cure.
Non vi si arriva così, a cuor leggero. Le associazioni che operano in Africa sviluppano progetti di volontariato altamente complessi ed estremamente dettagliati, orientati ad ogni tipo di persona che vuole partire e mettere il proprio lavoro gratuito al servizio del prossimo. Rivolgersi a questo tipo di organizzazione significa sporcarsi le mani per vivere da vicino un’esperienza diversa e non per il mero scatto di una foto evocativa.
È ovvio che il volontario che parte – specie se giovane – lascia una casa dove si affollano le preoccupazioni. Genitori per i quali potrebbe non essere facile accettare che un figlio parta per un’esperienza di questo tipo. Una famiglia che starà sempre, costantemente in pensiero.
Partire per l’Africa è volontariato, non egoismo
Ma chi parte, alla fine, non lo fa certo per egoismo. Lo fa per impiegare il proprio tempo libero in un modo che considera utile per gli altri. E, soprattutto, lo fa dopo aver valutato la situazione e preso una scelta consapevole e personale.
I rischi – lo abbiamo visto – ci sono. E fanno parte del gioco. Come quando ogni giorno ci immergiamo nel traffico con la nostra automobile. Quello che importa, adesso, è far uscire al più presto Silvia dalle mani dei suoi rapitori.